Nell'albergo Franceschetti, alla Cantoniera della Presolana, la mattina di quel 26 aprile 1945 non fu un tripudio di bandiere: non si videro camion carichi di partigiani coi fazzoletti al collo e le tasche piene di fiori, e nessuno cantava che pietà l'è morta.
Intorno al loro comandante, il sottotenente Panzanelli, che, con i suoi ventidue anni era anche il più vecchio del reparto, si era radunata la VI compagnia della legione "Tagliamento" della R.S.I., per ascoltare le parole che uscivano dalla vecchia radio a galena: trentasette uomini in tutto o, per meglio dire, trentasette ragazzi, tra i quindici ed i ventidue anni, provenienti un po' da tutta Italia; e quelle parole avevano il suono lugubre dei rintocchi funebri, anche se, almeno all'apparenza, erano parole di distensione e di civiltà.
Si dava notizia della fine del regime di Salò, annunciando che il Nord Italia, il giorno precedente, era insorto, e che ovunque il C.L.N. si era impadronito delle città e dei paesi: per la verità, resistevano, qua e là, reparti tedeschi in armi, che si sarebbero arresi solo agli angloamericani, reparti repubblichini, che trattavano la resa, e franchi tiratori, che, di lì a non molto, sarebbero stati soppressi: era la liberazione, anzi la Liberazione, quella che si festeggia tutti gli anni in Italia, nello sconcerto, per inciso, degli storici stranieri, che si domandano come mai da noi si festeggi una sconfitta come se fosse una vittoria.
Certo, per quei quaranta adolescenti, il momento era tutt'altro che adatto a festeggiare: erano partiti volontari per difendere una causa che, adesso, si rivelava assolutamente perduta.
Anche per i ragazzi della "Tagliamento" si poneva, perciò, la drammatica scelta tra una difesa ad oltranza, fino all'arrivo delle truppe regolari alleate o una resa a condizione ai rappresentanti locali del C.L.N.: le armi ed i viveri, per la verità, abbondavano ed avrebbero permesso un'efficace resistenza, tuttavia i militari optarono per la resa immediata.
In questo, furono spronati e consigliati da varie persone, tra cui dei sacerdoti, e ricevettero formali garanzie sul trattamento da prigionieri di guerra che sarebbe stato loro riservato (e che furono messe per iscritto, anche se il foglio, ad un certo punto, scomparve) da parte del capo del C.L.N. di Rovetta, il maggiore dell'esercito Giuseppe Pacifico.
Lo stesso Pacifico, insieme al curato di Rovetta, don Giuseppe Bravi, testimoniò a guerra finita circa il fatto che i giovani repubblichini non si fossero mai macchiati del minimo crimine e che, anzi, essi portarono la divisa sempre con umanità ed onore.
Così, il reparto del sottotenente Panzanelli, dal quale si erano allontanati tre uomini e che era stato, nel frattempo, raggiunto da altri tredici militi, che ne portarono a quarantasette gli effettivi, giunse quella sera a Rovetta, dove consegnò le armi e le munizioni agli uomini del maggiore italiano, che confermò loro che nessuno li avrebbe toccati, chiedendo loro solamente di non cercare di fuggire, in nome del loro onore di soldati.
I militi furono, dunque, riuniti nei locali della scuola comunale, senza sorveglianza di nessun tipo; ciò non ostante, nessuno tentò la fuga e, anzi, non si affacciò nessuno nemmeno alle finestre.
A suo dire, il maggiore Pacifico intendeva semplicemente aspettare l'arrivo degli Alleati, per consegnare loro i prigionieri.
Viceversa, alle 10 del 28 aprile, apparvero a Rovetta due camion carichi di partigiani delle brigate "Camozzi" e "13 martiri"; costoro disarmarono le sentinelle del C.L.N., si impadronirono dei prigionieri e li scortarono fino al cimitero del paese, per fucilarli.
Accompagnava il corteo il parroco don Bravi, figura controversa, capo partigiano e che, in seguito, si sarebbe difeso dalle accuse di non aver perorato la causa dei giovani repubblichini o di averlo fatto troppo blandamente col dire che era riuscito a salvarne ben tre!
Nei documenti raccolti dalla Procura della Repubblica di Bergamo tra il 1948 ed il 1950, per l'istruzione del processo e la ricostruzione delle responsabilità di quel massacro efferato, la figura di questo sacerdote compare avvolta più da ombre che da luci, ed egli dà la sensazione, alla lettura delle carte, di essersi voluto più che altro defilare, esprimendosi con un linguaggio vagamente donabbondiesco; fatto sta che i parenti delle vittime, quando giunsero a Rovetta per assistere all'esumazione delle salme, nel settembre del 1947, e vollero, comprensibilmente, parlare col prete che aveva, si fa per dire, assistito quei ragazzi in articulo mortis, non poterono farlo, giacchè don Bravi si era misteriosamente eclissato e reso irreperibile proprio in quei giorni, suscitando più di un sospetto in quella povera gente.
In ogni caso, data l'assoluta gratuità dell'eccidio e le sue modalità bestiali, che non si possono giustificare neppure con il clima di odio e di vendetta che imperversava in quei giorni, pare che sia calata sui fatti una vera e propria cappa di omertà, che impedì a lungo, non dico di fare chiarezza, ma anche solo di aver piena conoscenza dell'accaduto: il che, peraltro, avvenne in molte altre circostanze analoghe e, addirittura, in episodi passati alla mitologia resistenziale: cito ad esempio il fatto che, dalle ultime due lettere ai familiari della M.O. Giorgio Paglia, siano state espunte le frasi in cui egli scriveva che i partigiani prigionieri erano stati trattati bene e umanamente da uomini buoni, e che, viceversa, di qualcuno che militava dalla stessa parte dei martiri loveresi non si poteva dire altrettanto, gettando qualche pesante sospetto anche sull'episodio di Malga Lunga.
Se qualche dubbio sul comportamento cristallino di qualche sedicente patriota, che in realtà era solo un delinquente comune prestato alla causa, potevamo anche averlo, nel caso eclatante dell'eccidio di Rovetta i dubbi diventano certezze.
Andiamo, dunque, per gradi, cercando di enunciare i fatti storicamente acclarati, e lasciamo l'agiografia a chi fa collezione di panzane.
La figura chiave del massacro è un sedicente capitano alleato, noto col nome di battaglia di "Moicano", di nazionalità incerta, forse istriano, che sarebbe stato paracadutato sul monte Farno poco prima di Pasqua 1945, con il compito di rappresentare gli Alleati presso le formazioni partigiane bergamasche.
Questo criminale, che meriterebbe, al pari delle SS di cui tanto si parla in questi giorni, di essere processato e di rispondere delle sue scelleratezze, si trovava in quei giorni a Clusone e, appena ricevuta la notizia della resa dei militi della "Tagliamento", ordinò al comandante della "Camozzi", Giuseppe Lanfranchi, di recarsi a Rovetta e di passare per le armi senza processo tutti i repubblichini.
L'ordine fu oggetto di un'animata discussione nei locali del caffè "Commercio" di Clusone, cui parteciparono diversi esponenti di primo piano della lotta partigiana in alta val Seriana; alla fine, "Moicano" confermò le proprie direttive, affidandone l'esecuzione a due plotoni, composti da elementi sia della "Camozzi" che della "13 martiri" di Lovere, comandati, rispettivamente da Battista Torri (Fulmine) di Costa Volpino e da Bortolo Gusmeri (Caserio), pure di Costa Volpino.
I tentativi di giungere all'identificazione di questo "Moicano", nonostante fosse ben conosciuto da tutti i partigiani della valle e se ne possedesse, anzi, una bella istantanea, in cui è ritratto sorridente in una foto ricordo con alcuni nomi di spicco della Resistenza seriana e con ufficiali inglesi di collegamento, non diedero alcun risultato: circostanza quantomeno bizzarra, e che ci fa temere che questo bel tomo non fosse né istriano né di qualche altra provenienza esotica, ma venisse da lidi assai più prossimi al nostro, il che spiegherebbe la reticenza nel riconoscerlo!
Qualcuno lo assocerebbe ad un losco figuro di Colere, che, dopo aver massacrato un bel po' di gente con la scusa della giustizia partigiana, si sarebbe comprato un paio di roccoli in tanta malora, dandosi al bel tempo, uccellando.
Comunque sia, dopo la conferma dell'ordine di "Moicano", Zaverio Fornoni (Walter), vicecomandante della "Camozzi", partì coi suoi uomini alla volta di Rovetta, dove giunse verso le 10 del 28 aprile.
Come già detto, costoro disarmarono gli uomini del maggiore Pacifico, che, nel frattempo, non si trovava in paese, e si impadronirono dei militi disarmati e prigionieri, conducendoli al cimitero di Rovetta per l'esecuzione.
I partigiani, dopo aver diligentemente spogliato di ogni avere e, perfino, degli indumenti personali i quarantasei giovani (uno era scappato dalla finestra delle scuole all'ultimo momento, fratturandosi una gamba, ed era stato nascosto in casa del parroco), a gruppi di quattro o cinque, li massacrarono tutti, meno tre (che non avevano ancora quindici anni e che furono, perciò, graziati), a raffiche di mitra, dietro precisi comandi di "Fulmine".
La brutalità degli assassini non si fermò qui: i gruppetti di ragazzi che andavano alla morte dovettero passare, di volta in volta, davanti ai corpi che ancora si contorcevano nell'agonia, dei propri commilitoni; alla fine, i patrioti si preoccuparono di sparare a raffica sui crani di morti e moribondi, a mo' di colpo di grazia.
Dopo cinque ore, al groviglio di quei 43 cadaveri fu data una sepoltura indegna anche di una bestia, evidentemente allo scopo, in un ultimo slancio di efferatezza, di impedire ai familiari il riconoscimento delle salme: i corpi furono scaraventati, come sacchi di carbone, al di là del muro di cinta del cimitero e frettolosamente sepolti in tre fosse poco profonde, privi perfino delle scarpe (un paio fu visto, qualche giorno dopo, ai piedi di un malgaro, tutto felice delle sue scarpe nuove!), senza casse da morto né il minimo segno di distinzione.
La notizia della strage giunse alla Questura di Bergamo soltanto nel giugno del 1946: e poi parliamo dell'omertà dei siciliani!
Le indagini della Procura, si dipanarono, probabilmente, con molta buona volontà, ma, certo, in mezzo a mille silenzi e reticenze, di "non so" e di "non ricordo".
Per certo, esse dimostrarono l'estraneità materiale alla strage dei membri del C.L.N. di Rovetta, pur addebitando loro (e al parroco, in particolare) una sostanziale insufficienza degli sforzi tesi ad evitare il macello; altrettanto per certo, "Fulmine" risultò il più assatanato, tanto che il comandante dalla compagnia Carabinieri di Bergamo, già nella sua relazione del 30 ottobre 1945, lo definiva "(…) risoluto e abietto esecutore delle fucilazioni.".
In una successiva relazione (dicembre 1948) dell'allora maresciallo dei Carabinieri di Clusone, furono indicati, oltre al Torri (Fulmine), come esecutori dell'eccidio altri sei partigiani, alcuni noti col solo pseudonimo di battaglia e altri con nome e cognome, di cui due già deceduti al momento della relazione; la lista, col tempo, si allungò e si precisò ulteriormente.
Nessuno di questi signori, ovviamente, è stato perseguito per il crimine commesso, poiché la Corte d'Appello di Brescia, il 21 aprile 1952, in ottemperanza alla legge, considerò tutte le azioni compiute dai partigiani entro il primo maggio 1945 come azioni di guerra.
E sull'eccidio di Rovetta, fino alla metà degli anni Novanta, ossia fino alla pubblicazione del puntualissimo libro di Lodovico Galli intitolato, appunto "L'eccidio di Rovetta" (Zanetti Editore), scese, di fatto, l'oblio.
La relazione sull'insurrezione del 26 aprile 1945 del C.L.N. di Rovetta, che si mostra assai dettagliata nel descrivere perfino il numero di quadrupedi sequestrati e distribuiti alla popolazione, glissò, poi, sullo spaventoso massacro, definendolo testualmente "un fatto doloroso".
Io voglio credere che i vari signori Locatelli, Pezzoli, Brambilla, Seghezzi, Bonetti, Filisetti, Percassi, Zanoletti, Fornoni, Savoldelli, Rossi, che parteciparono a vario titolo all'eccidio, giunti ormai ad un'età in cui si comincia a fare due conticini con la propria coscienza, non si limitino, in questo 25 aprile di frasi retoriche, di commemorazioni e di sbandieramenti, a considerare il massacro di quei quaranta e passa ragazzini inermi, cui vennero rubate perfino le immaginette sacre su cui avevano scritto l'ultimo saluto ai genitori, semplicemente un fatto doloroso: credo anzi, che, qualche volta, capiterà loro di pensare a quel tribunale dal quale non si scappa e per il quale non valgono sanatorie o reticenze; di fronte al quale, diversi di loro saranno sicuramente già arrivati.
Spero per loro che abbiano delle buone giustificazioni per il proprio comportamento.
Noi ci limitiamo a ricordare che le vittime della bestialità umana vanno ricordate tutte e che non è tollerabile che, per offrire un'immagine oleografica della Resistenza, si taccia scientemente su di un fatto così grave, avvenuto nelle nostre valli.
L'eccidio di Rovetta non toglie una briciola della stima e della riconoscenza che dobbiamo ai numerosissimi valorosi patrioti che combatterono e, spesso, morirono per l'affrancamento dal nazifascismo, ma certo aggiunge ben più di una briciola sulla coscienza di tanti giornalisti e storiografi di casa nostra, che non si sono mai degnati di raccontare alla propria gente che anche tra i bergamaschi si nascondono le belve ed anche tra i partigiani vi furono dei feroci assassini.
Perché la belva, purtroppo, cova in agguato dentro ognuno di noi; e solo educando i giovani alla verità e alla pace si può continuare a tenerla sedata.
Non cercando di prolungare una guerra civile all'infinito, raccontando solo quel che ci fa comodo e nascondendo quel che non ci fa gioco.
Sarebbe opportuno che ci pensassero, quei signori che guidano le manifestazioni celebrative del 25 aprile, gridando in piazza le proprie frasi fatte.
Uno dei difetti del gridare slogan per strada consiste nel fatto che risulta molto difficile gridare e, contemporaneamente, riflettere.
Marco Cimmino