Ad avere un pochino di buona volontà, qualche minuto libero, e la curiosità di sapere come sono messi i propri concittadini in materia di storia patria, ci si può togliere qualche soddisfazione spicciola.
Basta, per esempio, mettersi un sabato pomeriggio in via XX settembre, davanti alla chiesina di Santa Lucia, scegliere, tra tutti i bortoli che si consumano le suole avanti e indietro quelli dall'espressione più stolida, in una fascia d'età compresa fra i quindici ed i venticinque anni, e domandare loro: "Lo sai perché via XX settembre si chiama così?".
A parte l'esilarante gamma di espressioni che il tipo basedowoide esibisce quando vuol dare l'impressione di spremersi delle meningi che non ha, le risposte sono davvero da fare invidia ai concorrenti della ruota della fortuna: Italia unita, fine del fascismo, proclamazione della Repubblica, e via delirando.
Invece, la ricorrenza che si celebrerebbe in questi giorni, se in questo Paese si celebrassero altre ricorrenze oltre a quella del 25 aprile, è di quelle mica da ridere: la presa di Roma.
Si tratta, per la verità, di una data importante non solo e non tanto per il fatto in sé, che, in pratica, completò il Risorgimento, quanto per le conseguenze che esso portò nella vita politica della Penisola, e, in particolare, di quella parte della Penisola che, come Bergamo, avesse una massiccia componente clericale al potere.
Quanto a spiegare perché, nell'encefalo della sesquiplebe, altre date restino maggiormente impresse, non è affar mio. Posso, comunque, garantire che, nell'immaginario dei nostri cari giovanotti, via XX settembre significa Mcdonald's, o, nei casi meno disperati, Footlocker o Cisalfa, e che, quanto a collegarla alla nostra storia, aspetta e spera! Così, cedendo al mio notorio buon cuore, nonché ai soliti diktat del direttore, cercherò di dare qualche indicazione di massima sulla faccenda, ad uso dei maratoneti del sabato pomeriggio, che così sapranno perché ci si trovi "in via Venti…" (sic) e non "in via Dodici" o "in via Diciannove".
Dunque, una buona fetta dei patrioti del nostro Risorgimento aveva la fissa di conquistare Roma.
Nel 1849, da tutta Italia (e particolarmente da Bergamo, terra accorrente quant'altre mai) era accorsa gente a dare manforte alla repubblica triumvirale di Mazzini, Armellini e Saffi; la faccenda, all'arrivo delle truppe francesi del generale Oudinot (da non confondersi con un famoso mago, dal cognome assonante), si risolse, come tutte le bischerate inventate dal tisicuzzo genovese, in un disastro totale.
Tuttavia, il tarlo di "O Roma o morte!" aveva già cominciato a lavorare nelle zucche patriottarde, Garibaldi in testa, e presto sarebbe diventato un tormentone.
Già nel 1862, all'indomani dell'epopea delle Due Sicilie, l'Eroe dei Due Mondi rilanciò lo slogan, e marciò su Roma (non avrete creduto che quella di Mussolini fosse un'idea originale!?) con 2.000 volontari.
Al pari però di un qualsiasi banalissimo espresso delle Ferrovie dello Stato, Garibaldi si trovò in forte ritardo sulla tabella di marcia, dovendosi fermare sine die in Aspromonte, dove i bersaglieri del colonnello Pallavicini gratificarono lui e i suoi di robuste schioppettate, che, nella fattispecie, per il Nizzardo si concretizzarono in una ferita che, se non produsse danni permanenti all'Eroe, tuttavia fu l'origine di una ferale canzoncina che ci afflisse prepuberi: Garibaldi fu ferito, eccetera.
Urbano Rattazzi, primo ministro sabaudo, aveva fatto credere a Garibaldi (che sui campi di battaglia era un eroe, ma nelle altre circostanze era un bel fesso) di essere favorevole all'impresa, che avrebbe posto l'imperatore francese, Napoleone III, che si atteggiava a protettore del pontefice, di fronte al fatto compiuto.
Quando, invece, il Bonaparte fece capire al governo italiano che, se appoggiava o non fermava Garibaldi, ci sarebbero stati guai grossi, Rattazzi, eroico come tutti i nostri politici, fece una bella piroetta, e mandò a remengo le camicie rosse, ordinando al Pallavicini di aprire il fuoco.
Dopo aver fatto la voce grossa, Napoleone III si accordò, nel 1864, con l'Italia, per garantire le prerogative del Papa senza essere costretto a rimanere di sentinella a Roma vita natural durante: ne venne fuori la cosiddetta "Convenzione di settembre", che impegnava la Francia ad un ritiro graduale delle truppe che difendevano la città capitolina, e l'Italia alla rinuncia di ogni pretesa su ciò che restava dello Stato della Chiesa.
Quasi a voler dimostrare che di Roma poteva benissimo fare a meno, il governo italiano spostò, l'anno successivo, la capitale a Firenze; ma mazziniani e garibaldini erano tutt'altro che rassegnati: bisognava solo aspettare il momento opportuno.
Infatti, non appena i Francesi spicchettarono, Garibaldi tornò alla carica, nell'ottobre del 1867, all'indomani della terza guerra d'indipendenza; nel frattempo, a Roma era scoppiata una rivolta, appoggiata da un drappello di camicie rosse comandate dai bergamaschi fratelli Cairoli, che, di lì a poco, a Villa Glori, l'avrebbero pagata cara.
Napoleone fece fare dietrofront ai suoi, che tornarono di gran carriera sui propri passi, infliggendo l'ennesima sconfitta ai garibaldini, a Mentana, il 3 novembre del 1867. Si capiva chiaramente che, con i Francesi di mezzo, ben difficilmente Roma sarebbe stata italiana.
Per fortuna, ci pensarono i Prussiani, che, nel 1870, ci tolsero di torno in un colpo solo quel pallone gonfiato di Napoleone III e le manie di grandezza dei suoi compatrioti, sconfiggendo l'esercito francese ed occupando la Francia.
Visto che i nostri cuginetti d'oltralpe avevano altre gatte da pelare, il governo italiano mandò a dire al Papa che, sulla faccenda di Roma capitale si sarebbe dovuto cominciare a discutere.
Il Papa, però, inalberò un due di picche grande come una casa, e il re ordinò a Raffaele Cadorna, padre del macellaio del 1915, di occupare la città.
Arrivando alle mura adriane dalla via Nomentana, i bersaglieri e gli artiglieri di Cadorna si trovarono davanti ad una grande porta monumentale, detta Porta Pia: risultò più semplice, piuttosto che forzare la porta, abbattere a cannonate un pezzo di muro nelle sue immediate adiacenze, e quella fu la celebre "breccia di Porta Pia", da cui, dopo uno scontro che fruttò un paio di centinaia di caduti, i soldati italiani penetrarono nella città: era, appunto, il 20 settembre del 1870; il 2 ottobre, in seguito ad un plebiscito, Roma entrava a far parte del Regno d'Italia.
Erano passati più di mille anni dalla donazione di Sutri: il potere temporale del papato era finito.
Ma gli restava quello spirituale; e non era poco!
Quando il parlamento italiano, nel maggio del 1871, votò la legge sulle guarentige, che garantiva al pontefice il non disprezzabile appannaggio annuo di 3.225.000 lire di allora e la extraterritorialità della città del Vaticano, cioè quella racchiusa dalle mura leonine, in cui il Papa si era rinchiuso all'indomani di Porta Pia, il pontefice non la riconobbe (il che, naturalmente, non gli impedì di intascarsi ogni anno la cospicua mancetta) e, anzi, tre anni dopo, proclamò il non expedit, ossia l'invito ai cattolici a non partecipare all'attività politica italiana.
Per più di cinquant'anni, ossia fino ai Patti Lateranensi del 1929, ci fu una posizione opposta ed intransigente, tra un governo italiano laico e, talvolta, apertamente anticlericale, e la Chiesa Cattolica romana: unico spiraglio, determinato dalla paura dell'ascesa delle sinistra, fu il Patto Gentiloni, del 1913, che consentiva ai cattolici di appoggiare i liberali dichiaratamente fedeli ai principi cristiani.
Il papa in questione, al tempo del non expedit, era, quando si dice il caso, il Beato Pio IX, proprio quello elevato agli onori degli altari insieme al nostro Giovanni XXIII.
Quando ascese al soglio di Pietro, nel 1846, il cardinale Mastai-Ferretti fu salutato (non si capisce bene perché) dai liberali come un Papa riformista e favorevole alla causa risorgimentale: in lui si vide l'incarnazione di quell'ideale federativo noto come Neoguelfismo.
Fu solo dopo il '48, che Pio IX mostrò il suo vero volto: preoccupato dalle rivolte europee, egli si lanciò in una sua guerra personale contro il liberalismo e la modernità, facendosi campione della reazione.
Il che significò anche esecuzioni capitali a gogo, tanto per essere chiari; perfino all'immediata vigilia della breccia di Porta Pia: parlando di due di queste esecuzioni, in una poesia Carducci gli si rivolgerà con le parole, non proprio adatte ad un futuro beato: "prete che mai non muori!", maledicendolo apertis verbis.
Come si può notare, erano tempi parecchio diversi da questi, che registrano gli accorati appelli del Papa contro la pena di morte: il Beato Mastai-Ferretti, giudicato con lo stesso metro che si usa oggi con il governatore della Virginia, sarebbe stato definito un assassino, né più né meno.
A Pio IX dobbiamo alcune perle, a metà tra la difesa della teocrazia ed il misoneismo a tutto tondo, come l'illuminante enciclica Quanta cura, in cui vengono stigmatizzate le pretese di autonomia di giudizio dell'uomo moderno, o il Sillabo, in cui si elencano una serie di piaghe della modernità, quali la libertà religiosa, di coscienza, di stampa, di opinione, oppure di quell'orrore dei tempi moderni che si chiama democrazia.
Da storico, ritengo che una lettura di questi interessanti documenti aiuterebbe parecchio a collocare il Beato Mastai-Ferretti nella giusta prospettiva.
Coloro i quali, nel 1848, avevano scritto sui muri: "Viva l'X con l'un de drio, l'oselin che fa pio pio", inneggiando alle presunte qualità liberali di Pio IX, erano esattamente come i graffitari dei giorni nostri: dei poveri imbecilli.
Immaginatevi l'effetto a Bergamo, città papalina oltre misura, di questa frattura profonda: apriti cielo!
Per fortuna, esistevano già allora escamotages di sicuro effetto, per garantire ai cattolici locali di continuare a gestire la cosa pubblica: il più diffuso era il "che volete farci: mi tocca!".
Certo che oggi la presenza di uno stato sovrano straniero, che è al contempo il centro universale della religione cattolica, all'interno del territorio della capitale di un altro stato sovrano, ogni tanto crea qualche imbarazzo.
Come nel caso del Gay Pride: hai voglia a ripetere cavourianamente, "libera Chiesa in libero Stato"; di fatto mica si può far finta che il problema non esista.
Potevano lasciare in pace la Chiesa e spedire i culatelli a Tor Vajanica, che magari si abbronzavano pure!
Anche qui da noi, dopo i Patti Lateranensi si è creato qualche equivoco; e, forse, si stava meglio prima, almeno per quello che riguarda la vita dei comuni cittadini.
Per esempio, data l'osmosi, peculiare della nostra città, tra potere religioso e laico, tanto stretta che potremmo definirla, con termine caro a numerosi prelati domestici, una vera joint-venture, un privato cittadino che volesse fare assumere in banca il proprio figliolo, ragioniere tra mille altri ragionieri, a chi dovrebbe rivolgersi per una bella raccomandazione: ad un dirigente dell'istituto di credito o a un monsignore della Curia?
E chi decide l'atteggiamento da tenere nei riguardi di quel campo nomadi di via Rovelli (ve lo ricordate?) che distribuisce ladruncoli in tutta la città: il Prefetto, il Questore o la Caritas?
La Caritas, direbbe subito Pio IX, e siccome coi beati, nonostante il proverbio, non si scherza, mi dichiaro senz'altro d'accordo: meglio vivere senza discoteche e con tanti begli zingarelli a spasso per i nostri salotti, che pestare i calli ad un potentato che può contare su mass media, imperi immobiliari e mobiliari, com'è la Chiesa bergamasca.
Forse forse, sarebbe stato meglio che il Papa si fosse tenuto lo Stato della Chiesa e che Cadorna si fosse congedato senza avere alcuna breccia nel curriculum: la capitale d'Italia adesso sarebbe Firenze, o Torino, ma, più probabilmente, alla luce della storia, Milano.
Ombretta Colli sarebbe primo ministro; e noi ci saremmo risparmiati cinquant'anni di DC.
Certo, una bella legione di deputati e senatori, disutili e pressochè invisibili, avrebbe dovuto trovare un altro sistema di riempirsi le tasche senza fare un tubo dall'alba al tramonto: magari avremmo avuto disutili di un altro colore, ma almeno, non ci avrebbero ricattato con la religione per spartirsi la frittatona.
E via XX settembre, in virtù del suo ruolo sociale, si chiamerebbe semplicemente "via dei Paini", mentre il 20 settembre sarebbe semplicemente la fine dell'estate!
Marco Cimmino